Arua, Nord Uganda: Verifica periodica a progetti locali in collaborazione con il CUAMM di Padova
ft. Rosaria Ferrauti
Appena andata in pensione, ormai quasi un decennio fa, il direttore del CUAMM mi ha esortata ad andare in West Nile, regione nel nord dell’Uganda , esattamente dove ci sono le Marchison Falls, il mitico luogo dove Stanley disse: ‘Mister Livingstone, I suppose’ . Nei distretti di Arua e Nebbi, zone agricole sull’altipiano, avevano appena concluso un progetto di riabilitazione durato 6 anni e fondamentalmente rivolto ai molti esiti di amputazione causate dalle mine disseminate durante la guerra civile. Dall’esperienza maturata dagli operatori locali nel 2010 è nata un ONG radicata al territorio: Community Effort for Inclusive Living (CEIL ) , che si impegna per la continuazione quell’attività, rispondendo soprattutto ad un bisogno ben più esteso: la disabilità fisica in West Nile, riguarda il 5 % della popolazione, dai danni neurologici post partum o post malaria cerebrale\ meningite ai numerosi traumi conseguenti a incidenti stradali o sul lavoro , ustioni, episodi di violenza, menomazioni sensoriali. In quest’area la disabilità è vissuta come uno stigma, una maledizione quindi la tendenza a nascondere i figli disabili è fortissima. Le strutture sanitarie specializzate sono praticamente inesistenti e comunque costose. Quando sono andata la prima volta mi sono resa conto che solo stando nei villaggi o nella piccola città emergeva il problema dell’isolamento e della sofferenza delle famiglie. Fondamentale e azzeccato mi è apparso il lavoro di quei giovani e motivatissimi operatori di CEIL impegnati per la loro gente, capaci di costruire km per km una comunità operativa efficace , malgrado le risorse scarsissime economiche ( il bilancio di una ONG africana è molto lontano da quelli delle ONG europee).
Prima loro meta è l’individuazione della disabilità , attraverso la rete di operatori comunitari che, a seconda del caso, indirizzano ai servizi sanitari specialistici o accompagnano il percorso riabilitativo e di inclusione sociale nel villaggio stesso di residenza. Ho sorriso quando ho visto le foto di un ragazzo con gravi esiti di poliomielite portato a suola in una carriola da manovale. Ho dovuto tenere a freno la lingua mentre gli operatori di comunità costruivano delle parallele con rami tagliati di fresco per permettere lo spostamento e l’esercizio di un ragazzo paraplegico. Ne avrei avute di cose da dire circa l’altezza e la sicurezza del prodotto finito ma ho detto il minimo indispensabile: il loro lavoro era prezioso e soprattutto rappresentava una prima opportunità per il disabile che fino a quel momento non ne aveva avuta alcuna. Per questo ho deciso di dare il mio supporto al loro lavoro, al loro impegno che muove dalla realtà quotidiana e punta a piccoli ( grandi) obiettivi: il diritto ad una vita attiva nella scuola, nel lavoro, nello sport. Inoltre incentiva la formazione permanente e l’aggiornamento degli operatori volontari di villaggio e insiste sulla sensibilizzazione delle famiglie e della comunità per vincere qualsiasi forma di pregiudizio.
Normalmente vado ad Arua una volta l’anno, verifico come procede il progetto, cerco di interpretare i loro bisogni, combatto con loro perché questa minuscola fessura di speranza non si chiuda, perché non soccombano alla pochezza delle entrate. Per una decina di giorni giro con loro per i villaggi e recentemente anche nei campi profughi ai confini con il Sudan, che di recente si sono riempiti in maniera impressionante. Mi confronto con il collega terapista che provvede alla distribuzione di ausili artigianali o inventa soluzioni geniali per i singoli problemi, per migliorare le condizioni di vita. E’ lui che con poche parole riesce sempre a lasciare indicazioni, insegnare qualche manovra o esercizio, indirizzare all’ospedale se necessaria una riabilitazione più specialistica
Invece nel distretto di Nebbi si occupa della riabilitazione una sola figura (come spesso accade in Africa non è esattamente una fisioterapista ma un’infermiera che ha fatto un corso specifico di 6 mesi nella capitale) . Mi fermo una settimana a lavorare con lei. Con ritmo forsennato affrontiamo i casi più complessi, le PCI , le emiplegie e le paraplegie. E’ una formazione sul campo (solo parzialmente didattica in senso tradizionale con fornitura di libri e fotocopie) che nel tempo sta dando frutti positivi, soprattutto nella elaborazione dei progetti terapeutici individuali. Se ci sarà possibile dovremo inserire un altro operatore della riabilitazione perché la richiesta sta aumentando, come sempre quando nasce un servizio che risponde alle necessità.
Posso solo dire che ci vuole tempo, ce ne vuole molto. Spero solo la mia buona salute e la mia inossidabile passione mi assistano per qualche altro anno ancora.