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Rapporto sull’esperienza personale di un mese come fisioterapista in Zimbabwe

Rapporto sull’esperienza personale di un mese come fisioterapista in Zimbabwe

Ft.: Andrea Giannini

 

Tra le motivazioni principali che mi hanno spinto ad intraprendere questo ricerca è stata l’esperienza vissuta, in Zimbabwe, nell’estate 2005.
Ho sempre sentito fin dall’ adolescenza, di voler affrontare in qualche modo il campo sanitario come Scienza riguardante lo studio dell’Uomo, delle sue capacità e delle sue debolezze.

Ad accompagnare questa sete di conoscenza in uno dei campi più affascinanti e completi del sapere umano, ci sono il desiderio, più forse, ancora una volta, la curiosità e il fascino di vedere come le nozioni apprese possano essere usate in contesti diversi da quello nel quali si è soliti vederle applicate.
Durante il percorso Universitario la passione e la curiosità sono aumentate e la conoscenza del gruppo di Fisioterapisti Senza Frontiere, mi ha spinto a frequentare i loro corsi di formazione e a partecipare ai convegni.
Da qui la comprensione di cosa volesse dire cooperare, negli scopi, nelle difficoltà e nelle modalità d’intervento più comunemente usate all’interno dei progetti di Cooperazione, per costruirmi una consapevolezza maggiore rispetto a quello che poteva essere semplicemente un ingenuo impeto adolescenziale.
Alla fine del terzo anno di Università, ho trovato l’opportunità di fare un’ esperienza in Africa, nella parte Nord Orientale dello Zimbabwe, al “Luisa Guidotti Hospital” diretto da quarant’anni dalla Dott.sa Marilena Pesaresi, sostenuto dalla Caritas di Rimini e in collaborazione con la Cardiochirurgia pediatrica dell’Ospedale Sant’Orsola di Bologna.
Questo non sottintende un’esigenza di carattere religioso alla base del mio desiderio di partecipazione ad un’esperienza di tipo umanitario.

Era chiaro che ero profondamente consapevole di quanto la situazione fosse fondamentale per la mia formazione, ma questo discorso è sempre rimasto alla base del mio desiderio di approfondire la teoria appresa in un qualche cosa di Riabilitativo ed Assistenziale, quasi un ringraziamento in atto a chi aveva permesso di studiare e diventare operatore nel settore, ringraziamento rivolto però a persone non fortunate come me, alle quali la mia preparazione avrebbe sicuramente giovato.
All’inizio, ero partito senza sapere quello che avrei trovato o fatto, spinto solo dalla possibilità di cogliere una opportunità che da tempo cercavo.
Appena arrivato alla Missione potei subito confrontarla con la realtà che ci era stata proiettata nella preparazione con i Fisioterapisti Senza Frontiere e questo mi ha permesso di non subire, più di tanto, l’impatto emotivo, tipico di quando non si sa quello che ci si può aspettare.

Nonostante le mancanze evidenti ed immaginabili di un Ospedale in mezzo alla campagna dell’Africa Meridionale, ero molto sollevato nel constatare che i bisogni principali erano comunque soddisfatti: corrente elettrica, acqua corrente, qualche raro black out.
L’Ospedale è l’unico specialistico per i pazienti cardiaci e l’unico ad aver iniziato le terapie con Anti-Retrovirali in tutto lo Zimbabwe.
La struttura si espande su reparti ben distinti e definiti: pediatria, reparto donne e uomini, padiglione maternità; una sezione isolata per i tubercolotici, la chirurgia, la farmacia interna e la radiologia abilitata per le radiografia, ecocardiografo ed ecodoppler, con infine, un padiglione staccato, dotato di una palestra di Fisioterapia.
Una struttura su un piano di moderata ampiezza con tanto di targhetta affissa dai generosi benefattori: “Physiotherapy and Rehabilitation Department”. Chiuso.

Molto materiale da ausili a protesi per l’arto inferiore, ortesi, materiale per bendaggi e gessi, completamente nuovi così come le attrezzature per la palestra. Tutto utilizzabile, ma inutilizzato.
La motivazione che ha portato al non utilizzo e al mai definitivo avviamento, è stata la mancanza di un Fisioterapista vero che andasse “sul campo” a spiegare l’utilizzo e ad organizzare quelle risorse.
Mary, l’operatore che fungeva da Fisioterapista, aveva conseguito, ad Harare, capitale dello Stato, un diploma come Tecnico della Riabilitazione una figura che è di affiancamento a medici ortopedici, Logopedisti e soprattutto Fisioterapisti.
Tutti i “riabilitatori” zimbabwani hanno conseguito questo titolo.

A livello teorico ho trovato la mia nuova collega molto preparata, per quanto mi è possibile giudicare. A livello pratico eseguiva in maniera standardizzata mobilizzazioni passive agli arti che risultavano, di paziente in paziente, alterati a livello motorio, sia che si trattasse di un quadro neurologico, che ortopedico.
Molta dell’attrezzatura di palestra, come gli standing, rimaneva inutilizzata perché Mary non aveva idea di che cosa fossero e tanto meno della loro funzione.
L’Ospedale, una struttura per pazienti cardiaci, ospita degenti ad alto rischio di ischemie cerebrali, possibili anche per l’indisciplina nell’assunzione di farmaci anticoagulanti e la frequenza di endocarditi batteriche. Con mia sorpresa mi sono trovato a trattare in maggioranza pazienti emiplegici tra i 30 e 50 anni.

I modesti risultati che mi sentii di avere ottenuto, sono riferibili soprattutto al rapporto con Mary.
Infatti, lavorando insieme, abbiamo inserito nei trattamenti, oltre alle mobilizzazioni, progressive verticalizzazioni, utilizzando gli standing impolverati, deambulazione ed esercizi finalizzati alle attività della vita quotidiana.
Questo evidenzia che nonostante non sia partito con un progetto preciso e definito di Formazione, si sia manifestata la necessità e, in essa, la possibilità di dare consigli utili a sfruttare le risorse presenti.
Per passare dalle corsie al padiglione della palestra, occorreva percorrere una settantina di metri distribuiti tra ghiaia, sabbia e un marciapiede gravemente sconnesso.

Era inevitabile osservare parenti che con estrema difficoltà, spingevano le carrozzine con i loro cari verso il dipartimento di riabilitazione. Questo accadeva soprattutto all’inizio, poiché le uniche carrozzine utilizzabili erano a quattro ruote piene piccole che rendevano ancor più impraticabile il seppur non troppo lungo tragitto.
Così si è avviato un grande lavoro di riparazione di carrozzine a ruote grandi posteriori, con autospinta. Da tre se ne riusciva a “comporre” una. Ce n’erano anche di super leggere, accantonate e smontate in un angolo tra polvere e ragnatele.

Nei primi giorni mantenevo un atteggiamento abbastanza passivo, concentrato più a spolverare il mio maccheronico inglese parlato e ad ambientarmi, sia all’interno che all’esterno dell’Ospedale, che a rimboccarmi le maniche.
Seguivo, come in un qualsiasi tirocinio, la mia particolare “tutor”, interessato, attento, più osservatore che attivo operatore.
Mi trovavo sicuramente in ambiente diverso, con casi clinici diversamente articolati rispetto a quelli a cui ero stato abituato. Mi riferisco soprattutto alle malattie infettive che, da noi, si riscontrano molto più raramente, soprattutto in un reparto di riabilitazione.
Nonostante ciò non avvertivo una grossa differenza con la nostra realtà.
Rimaneva comunque in quella quotidianità qualcosa che non mi era chiaro.
Confuso e distratto, non riuscivo ad avere un atteggiamento critico rispetto a quello che mi passava davanti agli occhi.

Finito il lavoro della mattina in Ospedale, passavo molto tempo nell’orfanotrofio che si sviluppava in continuità col reparto di pediatria.
E’ qui infatti che i bambini dell’ospedale si mischiavano a quelli dell’orfanotrofio.
Fu durante uno di questi momenti che mi accorsi, osservando alcuni ragazzini, che probabilmente avrei potuto fare qualcosa.
Per alcuni la scelta degli ausili era assolutamente inadeguata.

Paul, 12 anni. Costretto da un’osteomielite alla testa del femore destra a non caricare sulla gamba, girava con un deambulatore ad appoggio ascellare.
L’ausilio non era usato adeguatamente, camminava normalmente trascinando il deambulatore, nonostante le indicazioni del medico prevedessero l’assenza di carico. Inoltre, ingabbiato nel deambulatore, incontrava forti difficoltà in tutte le attività che si trovava a svolgere.
Visto che c’erano a disposizione un numero consistente di ausili tra i quali scegliere, ho provato, consultandomi con Mary, a dargli delle stampelle con appoggio ascellare.
Ora girava senza appoggiare la gamba e aveva meno ingombro durante le azioni che si trovava a svolgere.

Trust, 8 anni. Il bimbo, orfano, affetto da piede torto congenito, era obbligato a gattonare poiché gli erano stati confezionati dei gessi che avvolgevano l’articolazione tibio-tarsica fin sotto il ginocchio, senza un motivo che lo giustificasse.
Pur rischiando un’intromissione inopportuna per la mia posizione di ultimo arrivato, feci notare la situazione alla Dott.sa Pesaresi e convenimmo insieme di toglierli perché rappresentavano un limite senza scopi benefici.
Adesso corre sul dorso del piede, insieme agli altri bambini, senza limitazioni sia all’interno che all’esterno.

Paul, 3 anni. Orfano. A 10 mesi di vita, probabilmente aveva avuto un’ encefalite. Quando sono arrivato ho osservato subito l’atteggiamento di passività che il piccolo mostrava in mezzo agli altri bambini. Veniva pestato e non reagiva neppure col pianto. Non riusciva a stare in piedi, nemmeno aggrappandosi, visto che anche le pinze non erano efficaci. Stava seduto per terra, ma a volte perdeva il controllo del capo. Non si alimentava da solo e aveva grosse difficoltà anche nella deglutizione.
Per lui il trattamento, che saltuariamente Mary effettuava, prevedeva sempre e solo mobilizzazioni passive agli arti inferiori.
Incoraggiato dai casi precedenti, mi sono confrontato nuovamente con Mary e abbiamo provato, nel periodo della mia permanenza, a stimolare il piccolo Paul in maniera differente: invitandolo a passaggi posturali, sostenendolo in ginocchio con appoggio frontale o in ortostatismo.
All’inizio i nuovi trattamenti duravano pochi minuti, a causa dell’intolleranza del paziente. Col tempo i primi risultati si videro, soprattutto nei momenti in cui era in mezzo agli altri bambini. Ora quando veniva calpestato dagli altri si portava le mani davanti al volto ed emetteva qualche lamento, mostrandosi dunque reattivo.
Dopo un mese, riusciva, autonomamente, ad aggrapparsi alle sponde del letto e a tirarsi su.
Probabilmente tutti i casi appena enunciati avrebbero trovato col tempo una soluzione, fatto sta che mi sono serviti come spunto di riflessione, di discussione e di scambio con Mary. Non mi sono proposto come insegnante esperto che illustra la giusta via e fortunatamente, Mary, non mi ha accolto come tale ed ha accettato con entusiasmo la mia collaborazione. Questo ovviamente ha facilitato tutto. L’umiltà e la coscienza di essere ancora uno studente credo che mi siano serviti nell’approccio a questa esperienza, affrontata più con l’impeto di imparare che con la presunzione di essere in grado di imporre cambiamenti.

Lo sciamanesimo è molto presente, ma questo problema è stato drasticamente risolto dalla dott.sa Pesaresi con il non accettare pazienti con sonagli donati da stregoni e guidandoli fino ad un affidarsi totalmente alle mani degli operatori dell’Ospedale.
Questo è in sintesi quanto svolto nell’esperienza attiva, ma il mio approccio con i pazienti e non, il mio bisogno di capire e di farmi capire, le capacità di mettere in pratica tutto quello che avevo appreso, l’impatto emotivo con bambini e persone che non avevano assolutamente niente nella vita se non – e sembra un’esagerazione – il loro handicap, sono stati tutti elementi che mi sembravano in un primo momento impossibili da superare e da vincere.
Una volta di più mi sono reso conto di che abisso ci sia tra il parlare, il leggere o il vedere in tv e invece vivere in prima persona questa esperienza.
La realtà è a volte così cruda che da commozione prende il sopravvento, se non si tiene sempre presente, il perché si è lì e sempre viva è la consapevolezza di quanto il rapporto umano giochi un ruolo che va ben al di là delle mere competenze mediche perché se non c’è la collaborazione dell’altro anche il nostro lavoro è senza frutto.
Ho capito che pochi macchinari, l’elettricità e l’acqua possono fare miracoli dove non si è niente e senza modestia, mi sono reso conto di quanto sia importante anche un contributo piccolo come il mio là dove anche il solo esserci è per gli altri motivo di conforto e di aiuto.

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