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Missione Saharawi: dal diario del terapista responsabile del progetto

Missione Saharawi: dal diario del terapista responsabile del progetto

Ft.: Emilio Vellati

 

Dopo aver incontrato nel 1996 la O.N.G. di Bologna C.E.S.T.A.S. che chiedeva all’A.I.F.I. Emilia-Romagna una collaborazione tecnica per un possibile progetto di riabilitazione in aiuto del popolo Sahraui, dopo aver discusso a lungo con la “Commissione per i rapporti con le Associazioni dei Malati e del Volontariato” presso l’A.I.F.I. Emilia Romagna ed essendo giunta l’occasione per un sopralluogo, sono partito per la missione esplorativa Sahraui.
Il popolo Sahraui, vive in quattro tendopoli in campi profughi vicino a Tindouf all’estremo Sud-Ovest dell’Algeria, ai confini con il Marocco e la Mauritania, in pieno deserto del Sahara Occidentale.
Questo popolo, che conta 180.000, abitanti è costituito essenzialmente da beduini del deserto che da sempre hanno vissuto di pastorizia e nomadismo.
L’etnia è caratterizzata dal colore olivastro della pelle, da lineamenti regolari, zigomi larghi, grandi occhi scuri; sono piuttosto alti di statura, di indole pacifica e di carattere allegro.
La loro cultura affonda le sue radici sulla solida, antica tradizione sociale basata sulla famiglia, sulla morale islamica, sulla solidarietà di gruppo, sulla genuinità dei sentimenti, sul rispetto delle regole sociali, tenendo in grande considerazione il benessere dei bambini, delle donne e degli anziani.
Alla tradizione dei beduini del deserto si aggiunge quella di ex combattenti, che hanno affrontato la guerra per difendere il loro territorio, la loro libertà ed il loro popolo.
Allorchè il colonialismo spagnolo si ritirò dai territori del Sahara Occidentale, lasciò confini così poco definiti che il Marocco, avendo mire espansionistiche, sospinse i Sahraui all’interno del deserto, provocando una guerra durata 20 anni, cessata poi per volere dell’ONU.
Gli uomini di questo piccolo popolo fiero ed orgoglioso, con pochi mezzi e grandi sofferenze, hanno resistito all’assalto prepotente dell’invasore, spesso pagando con la vita, con molte gambe amputate e con la prigionia in territorio marocchino.
Per questo ancora oggi, il popolo Sahraui vive senza patria, profugo provvisorio in territorio algerino.
Il giorno 13/2/97 io ed altri quattro tecnici del C.E.S.T.A.S. siamo volati da Roma ad Algeri.
Ad Algeri siamo stati accolti ed accompagnati dal Fronte Polisario (l’esercito di resistenza del popolo Sahraui, in albergo, di stile neocoloniale francese, nel cuore della città, con il divieto assoluto di uscire dall’hotel. In quei giorni infatti, la città era stata presa d’assedio, Algeri era in preda ad una lotta spietata per il potere, ufficialmente spacciata come “terrorismo dell’estremismo islamico”.
Di buon ora, il mattino seguente, siamo stati prelevati dal Polisario, portati all’aeroporto alla volta di Tindouf. Abbiamo volato per 3.000 km, attraversando tutto il deserto da nord a sud, vedendo sempre e solo sabbia.
Sbrigate le procedure doganali, siamo stati portati nel centro di accoglienza dei campi profughi.
Il centro che accoglie i volontari O.N.G., i tecnici di tutta Europa, è il punto di riferimento per l’organizzazione dei protocolli dei progetti di aiuto.

Qui nella mattinata ho incontrato il Ministro della Sanità della Cooperazione, al quale ho presentato il nostro progetto.
Il Ministro si è dimostrato interessato fin da subito, ed insieme abbiamo definito un programma di visita guidata alle realtà sociosanitarie, per prendere atto dei problemi e soprattutto per stabilire un piano sanitario, sia per l’adulto, sia per il bambino.
Il protocollo prevede dunque visite a:
– bambini handicappati presso la scuola 9 Giugno
– pz. della scuola, ex militari, feriti di guerra (paraplegici, emiplegici, protesizzati)
– servizi dell’ex ospedale militare (oggi civile) Bolla Ahmed Zein
– bambini handicappati che vivono presso le famiglie sotto le tende nei campi profughi.

Il ministro ha posto l’accento ed il maggior interesse per il Centro dei Militari di Guerra, ma io ho ribadito l’esigenza di un intervento anche sulla fascia infantile, giacchè essa non accede alla riabilitazione se non dopo l’età scolare, con evidente impossibilità di intervento e recupero.
Insieme ci siamo accordati sulle fasi del protocollo, con l’intenzione di fare un bilancio conclusivo alla fine della mia visita.
Oggi ho visitato la scuola 9 Giugno.
E’ una scuola collegio, sperduta nel deserto frequentata da 2.000 alunni, che ritornano a casa solo tre olte all’anno.
L’edificio è a forma di caserma, con struttura bassa, cosparsa di sabbia, con piccole finestre e un tetto coperto di lamiera (la temperatura d’estate è di 56° all’ombra e 65° al sole); c’è un vasto cortile all’aperto per i giochi e il tempo libero, ma niente altro.
Le aule sono fitte di alunni ed il materiale didattico è scarso.
I ragazzi sono vestiti decentemente, ma noto che i letti nelle camere hanno una sola coperta (di notte la temperatura scende a 4°-5°).
Usano il programma didattico algerino, in lingua araba e spagnola. I bambini handicappati hanno una sede all’interno della scuola: chi può accede alle classi normali, gli altri studiano lì. I momenti di vita scolastica tuttavia, li trascorrono insieme a tutti gli altri alunni.
Hanno una palestra per la rieducazione motoria a loro disposizione, regalata da una O.N.G. francese, purtroppo senza Terapista o personale sanitario.
Vi sono barriere architettoniche ovunque: il pavimento è in suolo battuto, i letti sono in pessime condizioni o addirittura rotti, i servizi già scarsi sono comuni a tutti.
Al termine della scola elementare, il bambino handicappato viene riportato in famiglia, nelle tende e lì finisce il suo curriculum scolastico.
E’ assolutamente evidente che manca un piano sanitario di prevenzione e di cura dell’handicap; mi chiedo quasi ossessivamente se sia futuristico, in questa situazione, pensare di organizzare un intervento formativo prima direttamente presso le famiglie (per agire in modo tempestivo e preventivo), successivamente presso la scuola e dopo con la terapia occupazionale e una formazione professionale adeguata, mirate all’autonomia e al reinserimento.
Forse per ora il progetto può essere attuato solo in parte: tramite il diffondersi di informazione e nursing riabilitativo direttamente alle madri dei bambini portatori di handicap.
Ho visto poi l’ospedale regionale di Dakla.
Mancano generatori elettrici, l’assistenza infermieristica è fatta direttamente dai familiari, i termometri non ci sono perchè con le alte temperature saltano.
Il degrado consiglia di restare nel deserto, le mosche sono endemiche, i servizi igienici sono secchi di plastica, i vetri alle finestre sono rotti.
Oggi sono andato alla tendopoli di Dakla, in mezzo al deserto, fuori dal mondo, sospesa come un miraggio, senza acqua, senza luce, senza servizi igienici.
Non cresce un filo d’erba, non esiste ombra per ripararsi dal sole, ma solo mosche, capre e tanti bambini e una distesa di tende e capanne per una popolazione di 45.000.000 abitanti.
Non c’è un centro di fisioterapia in tutto il villaggio e gli ammalati vengono trasportati via solo se gravissimi.
Molti non hanno mai visto un medico, nessuno ha mai visto un terapista.
Cerco di vivere il più possibile a stretto contatto con la gente per capire meglio la loro condizione di vita, per intuire almeno una parte dei loro problemi.
Sono ospitato presso le tende, con il conforto di un tea, di una stuoia per sdraiarmi a terra.
Non esiste alcuna mobilia, se non dei cuscini, una bombola di gas, e la sola grande presenza di una spontanea gentilezza ed ospitalità che questa gente ti riserva.
Ben presto si diffonde la voce della mia presenza e molte madri mi portano i loro figli handicappati da visitare direttamente sotto la tenda.
Sono madri attente, premurose, affettuose.

Capisco subito quanto il loro affetto abbia compensato il dolore e la sofferenza per sopravvivere all’handicap e comprendo quanto aiuto vero, semplice ma concreto, il t.d.r. potrebbe dare.
Ma lì il t.d.r. non c’è e non ci sarà mai fino a quando qualcuno di noi, liberandosi dalla sua posizione privilegiata, si trasformi da accentratore di tecniche, dispensatore di cultura riabilitativa, prestatore di un semplice servizio che vada incontro alle reali necessità del malato portatore di handicap.
Oggi, ho visitato l’Ecole Chaid Chreif (scuola di ex militari feriti durante la guerra). In questa unità di lungodegenza ci sono disabili gravi, feriti di guerra: para e tetraplegici, protesizzati, etc.
In parte sono a letto immobilizzati da anni, in parte si trovano in carrozzina.
Vi sono camere da 2 a 6 persone, le finestre sono senza vetri, i servizi igienici inesistenti.
Anche i pz. con piaghe da decubito sono senza lenzuola, nonostante la presenza di mosche e le tempeste di sabbia (che entra ovunque).
Mancano attrezzature, protesi, carrozzine comode, materassi ad acqua, stampelle, etc.
Qui la situazione è grave: non c’è personale sanitario, nè tanto meno terapisti.
Mi appare subito chiaro che questo centro è di massima priorità, sia per la gravità delle patologie, sia per la collocazione logistica strategica e per l’opportunità di avere una scuola di formazione collegata, attiva per giovani handicappati, allo scopo di avviarli al lavoro.
Infine perchè qui c’è una palestra, non ancora attrezzata, ma destinata alla rieducazione motoria.
Potrebbe così diventare una struttura polifunzionale, con un centro di fisioterapia che ben risponde alle esigenze dei pz. e di noi riabilitatori.
Ho visitato molti pz. nel centro, ma la loro domanda era sempre la stessa: “mandateci terapisti per fare formazione sanitaria perchè non abbiamo personale specializzato”.
Ho visitato anche l’ospedale nazionale Bolla Ahmed Zein, dove c’è una specie di palestra ed un terapista che ha studiato a Cuba. Anche lui chiede insistentemente una formazione professionale più adeguata.
Ho visitato anche le altre tendopoli.

Oggi ho incontrato il Ministro della sanità Bullahisid ed abbiamo analizzato insieme la situazione sanitaria. L’incontro è stato cordiale, semplice e proficuo.
Il Ministro si è mostrato entusiasta ed ha vivamente sperato nel nostro intervento, proponendo di inserire il progetto nel piano sanitario nazionale.
Anche il primo Ministro della R.A.S.D., nella chiusura finale del protocollo, ha ringraziato l’A.I.F.I. per l’interessamento, con la speranza di una rapida realizzazione del progetto.
Ritorniamo per l’ultima volta alla tendopoli, perchè poi dobbiamo partire.
Questa esperienza nei campi, in mezzo alla gente, è stata sconvolgente ed affascinante: la penuria di ogni cosa, le tempeste di sabbia, la ricerca dell’acqua considerata sacra, gli spazi infiniti, le aurore incredibili, le dune dorate, la gente povera ma felice, la capacità di adattamento all’ambiente, in condizioni per noi impossibili, il culto della persona, della dignità, della libertà, il collante di un popolo sano che guarda il futuro con speranza, che misconosce il mondo, ma rivendica il suo essere figlio del deserto.
Mi costringono ancora una volta a restare a mangiare con loro, mi offrono le poche cose che hanno, iniziamo con il solito tea, che un anziano accovacciato a terra versa nei piccoli bicchieri, centrando con gesto ripetitivo e sicuro tutta la fila, sussurrando: “il primo è amaro come la vita, il secondo è dolce come l’amore, il terzo è soave come la morte.” E’ difficile non accettare quel tea. Intanto il sole tramonta e ben presto arriva la lunga notte fresca e illuminata dalla placida luna africana.
La “dara” della tendopoli nella notte ritrova il suo fascino indiscreto, i suoi ritmi misteriosi, le sagome nere si intrecciano, si incontrano, si lasciano… mentre la grande luna illumina le tende di argento vivo, tutto ripulisce e nasconde.
Il mattino dopo mi sveglio e guardo il sole che si alza in un batter d’occhio; le flotte di bambini e donne dagli occhi fieri ci salutano festosamente.
Dobbiamo partire, raccogliamo le nostre cose per volare ad Algeri ed infine a Roma. Il 27 febbraio, la missione si è conclusa, a casa stenderemo il progetto di aiuto.

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